Il cambiamento

  Sto guardando il fumo della sigaretta che si sfalda nell’aria. Lo spiraglio aperto della finestra lo cattura, ma non l’odore anche perché il posacenere è pieno.

           I bambini li ha portati via ieri Mario, il mio ex, e quindi non devo preoccuparmi di intossicarli con il mio fumo, di dare il  cattivo esempio. Sto facendo male solo a me stessa, ma chi se ne frega! Schiaccio il mozzicone nel posacenere colmo. Dovrei svuotarlo, ma ho la testa che ronza, un gusto amaro in bocca e non ce la faccio a muovermi dalla sedia.

            Stanotte non ho dormito, ho guardato il quadrante  della radio sveglia, con il suo verde fluorescente che mi entrava negli occhi anche quando erano chiusi. Poi non ce l’ho fatta più di rigirarmi nel letto e mi sono alzata. Ho acceso la televisione, ma ho spento subito: m’infastidiva.

            M’infastidisce tutto e non posso che prendermela con me stessa. Sarebbe così liberatorio scaricare sugli altri la colpa, potrei prendere a schiaffi qualcuno e invece…

            Ho superato i quaranta, un’età fatidica per noi donne. Ti guardi più spesso allo specchio. Sei ancora bella, non proprio come quando avevi trenta anni, ma forse con qualcosa in più, poi ti chiedi subito quando durerà questo stato di grazia. Quando arriveranno le prime rughe, quando lo sguardo diventerà duro e inizierai a gonfiarti con la menopausa e controlli più spesso il tuo ciclo. Come un bocciolo di rosa che si apre lentamente nel suo fulgore e poi si sfalda reclinando il gambo rugoso.

            Ho avuto tardi i miei figli, un po’ per scelta a causa del mio lavoro e un po’ perché quando poi desideri averli tutto diventa più difficile. Con mio marito, dopo le gravidanze, il rapporto é divenuto un tranquillo menage senza slanci amorosi. Ci scambiamo qualche parola incrociandoci fra una corsa al lavoro, all’asilo e i vari appuntamenti che costellano la vita di oggi.

            L’amore é finito, ma ci rispettiamo e poi non abbiamo molto tempo per noi.

            Lui lavora in uno studio di avvocati, io faccio l’infermiera specializzata in una clinica privata. Quindi anche i nostri orari congiurano contro di noi, spesso i miei turni di lavoro mi costringono a chiedere aiuto a mia suocera, la mia mamma è morta da tanto. Non mi fa piacere, ma a volte non hai scelta. Sei costretta a correre la mattina, preparare le colazioni, accompagnare i bambini al nido, a scuola: una corsa contro il tempo, a volte completo il trucco in macchina prima di andare a timbrare il cartellino.

            Un momento di relax é davanti alla macchinetta del caffè della clinica. Una brodaglia immonda, ma ti lascia il tempo di scambiare due parole con gli altri che si attardano intorno alla macchina per lo stesso motivo. Poi ognuno si fa riprendere dal vortice del lavoro, dell’umanità dolente che passa ogni giorno in quelle stanze. A volte mi chiedo se un bel giorno troverò ad attendermi solo volti felici. Che utopia: si va dal dottore perché si sta male.

            Avrei dovuto capire che i podromi c’erano tutti, chiedere le ferie e fare un bel viaggio con mio marito.  Semplice, vero? Invece ho continuato nella mia quotidianità.

            Svuotando le tasche di un giubbotto di mio marito da mandare in lavanderia ho trovato un fazzolettino profumato, di stoffa bianca con un piccolo ricamo. Chi mai usa un fazzoletto di stoffa oggi se non per bellezza e poi come mai l’aveva messo in tasca? La sera, prima di cenare, glielo porsi. «Che vuol dire?» chiesi.

            «Adesso ti metti a frugare fra le mie cose?» rispose imbarazzato. È sempre una tattica vincente quella di controbattere attaccando, lui l’ha sempre usata.

            «Guarda che non ci casco. Voglio sapere perché conservi un fazzoletto femminile profumato.»

            «Subito a montare un caso. Mi è andato un bruscolo nell’occhio e, una mia collega, gentilmente mi ha dato il suo fazzoletto. Poi mi sono dimenticato di restituirglielo. Tutto qui.»

            Finsi di credergli, tanto non avrei ottenuto altra risposta e poi non volevo fare scenate davanti ai bambini, ma la storia mi lasciò l’amaro in bocca. Però non sapevo esattamente se stavo male perché ero gelosa o per la ferita all’amor proprio. Ho iniziato a stare attenta ai piccoli indizi che fanno capire se il tuo compagno ha una relazione. Uno sbaffo di rossetto sul colletto, un numero di cellulare che compare frequentemente, ma non sono il tipo di assillarlo, in fondo fra noi tutto è finito. Stiamo insieme per i bambini e perché è complicato rompere uno schema.

            Poi al lavoro ci sono stati degli spostamenti, hanno aperto un nuovo reparto e mi hanno spostato da un reparto a uno nuovo: cardiologia. Il responsabile é uno specialista, il dottor Cialdi, che ha lasciato l’ospedale per venire da noi.

            Sta un po’ sulle sue e non sono riuscita a dare molte notizie alle colleghe che chiedevano di lui davanti alla macchinetta del caffè. Non sapevo nemmeno se era scapolo o sposato. Il fatto che non portasse la fede non era indicativo, la mia l’ho tolta il giorno dopo il matrimonio.

            Lo intravidi, insieme alle colleghe, a una tavola calda vicina durante una pausa pranzo.

            Era con una bella donna e stavano discutendo animatamente. Mi dissero che era la moglie, avevano anche loro due figli di cui uno handicappato.

            Non doveva avere una vita facile e lo guardai con occhi nuovi, era un uomo come tutti gli altri, anche lui aveva i suoi problemi. Pur passando insieme quasi tutta la giornata non l’avevo mai osservato attentamente, ero stata troppo occupata a non commettere errori nel preparare la strumentazione, ma adesso notavo i piccoli scatti nervosi, il fatto che alle telefonate personali rispondeva a monosillabi mordendosi le labbra.

            Poi i bambini hanno avuto una serie di malattie esantematiche prima uno e poi, ovviamente, l’altro e ho chiesto un permesso per stare a casa con loro. Al mio ritorno il dottor Cialdi mi fece una bella ramanzina sulla dedizione al lavoro. Lo guardai stupita, i nostri rapporti erano di routine lavorativa, non mi sembrava di averlo abbandonato.

            «Scusi dottore, a parte che non potevo portare i miei figli da altri, non era il caso di farli uscire, ma ho preso dei permessi, non me la sono spassata e poi sicuramente le avranno assegnato una nuova infermiera.»

            «Sì, si certo, ma non mi sono trovato bene.»

            Nell’intervallo pranzo venni a sapere che nessuna delle infermiere che gli erano state assegnate aveva resistito più di due giorni con lui, era pedante, si lamentava in continuazione anche davanti ai pazienti, perdeva la pazienza per un nonnulla. Strano. Feci notare che con me non era mai successo. «Si vede che hai fatto colpo!» insinuò con una risatina qualcuna.

            La cosa mi diede fastidio, ma lasciai correre. Ci tenevo ad avere un buon rapporto con le colleghe. Poi un giorno che mi era caduta una cartella per terra mi fece una sfuriata, ed io, che non me lo aspettavo, mi rialzai di colpo con le carte in mano per rispondergli e mi ritrovai con lui che mi teneva per le spalle per poi stringermi forte. Mi allontanai subito.

            «Scusi non dovevo. Non so cosa mi è preso.»

            Era sincero, la maschera dell’uomo intransigente che indossava ogni giorno era caduta, era vulnerabile come in fondo lo ero io.  Quel giorno ci salutammo quasi rigidamente, ma quando l’indomani mi chiese un appuntamento a un bar all’altro capo della città, non seppi dire di no.

            Dopo quello ce ne furono altri, per poi finire in uno squallido albergo a ore. Non mi sentivo colpevole verso mio marito, sapevo che aveva avuto delle avventure, ma verso i miei bambini sì.

            Era tempo che rubavo a loro rientrando più tardi con la scusa di un doppio turno, ma lui rappresentava per me l’ultima chance. Mi sentivo bella e libera, lo amavo, Sentivo di amarlo come non era mai successo con mio marito. Anche lui mi amava, ne ero sicura.

            L’amore a volte non solo ci rende ciechi, ma allenta tutte le nostre difese.

            Eravamo molto attenti sul lavoro a trattarci freddamente come due estranei. Innaturale forse, a ben pensarci, per due persone che stanno a contatto giorno dopo giorno. Una sera che c’eravamo attardati per delle cartelle da esaminare, lui mi baciò sul collo e poi appassionatamente sulla bocca.

            In qual momento la porta si aprì e la dottoressa Mari, responsabile del personale e titolare della clinica, ci sorprese. Non so se fu solo per caso o se giravano già voci sulla nostra relazione, ma

la sua voce gelida ci gelò.

            «Infermiera, la voglio subito nel mio studio e lei, dottor Ciani, si pulisca dal rossetto e mi raggiunga subito dopo.»

            Ero rimasta immobilizzata dalla vergogna, presi la mia borsa e senza guardarlo raggiunsi lo studio della dottoressa.

            «Sa che non sono ammessi rapporti intimi sul lavoro. È scandaloso, siete tutte e due sposati con figli. Non dovrei essere io a farle la morale. Comunque le do una scelta: lei da le dimissioni ed io le firmo un attestato con buone referenze, oppure resta e la spedisco al reparto prelievi, le assicuro che tempo pochi giorni tutti sapranno cosa è successo.»

            Ero stordita, stava accadendo realmente a me?

            «Ho bisogno di una risposta. Subito.»

            La voce mi uscì arrochita «Mi dia il foglio. Mi dimetto.»

            «Bene. Ha fatto la scelta giusta. Passi domani che formalizziamo il suo incartamento.»

            Uscendo lo vidi seduto a testa bassa nell’anticamera. La voce della dottoressa ci raggiunse:

            «Si accomodi, dottore.»

            Fuggii via dallo stabile. Presi la macchina e feci un giro lungo le strade della città, non potevo rientrare con quella faccia disperata a casa.

            Il giorno dopo andai direttamente nello studio della Mari. Firmai le pratiche, lei mi consegnò un attestato di ottima efficienza e i miei anni di lavoro si conclusero così. In clinica già tutti sapevano. Me ne accorsi dalle risatine sottili, dal fatto che molti finsero di non vedermi per poi sentire lo scoppio di un chiacchiericcio dietro alle mie spalle.

            A casa dissi che c’era stata una riduzione del personale, ma che avendo buone referenze non avrei avuto problemi a trovare un nuovo lavoro.

            Nessuno dei miei colleghi si fece sentire, non una telefonata, ma forse era meglio così non lo avrei sopportato. Nell’intervallo pranzo lo chiamai al cellulare.

            «Marisa, mi spiace per quanto è successo. Te ne sei dovuta andare per colpa mia.»

            «Hanno presi provvedimenti con te?»

            «No. Ovviamente mi ha fatto una bella ramanzina e minacciato di dire tutto a mia moglie se dovesse ricapitare.»

            «E tu che hai risposto?»

            «Marisa tu sai che ho un figlio handicappato, non posso abbandonarlo!»

            «Si certo, non era quello che mi sussurravi. Stupida io a crederti.»

            Bloccai la comunicazione. Non ero stata che una avventura, forse una delle tante, perché la frase “se dovesse ricapitare” era sintomatica.

           Dissi a mio marito che volevo prendermi qualche giorno di riposo prima di ricominciare a cercare lavoro. Fu allora che scoprì le carte

            Ci affrontammo come due cani rabbiosi.

            «Facevi la santerellina che mi rinfacciava ipotetiche avventure, mentre invece te la spassavi. Non finisce così sai, voglio il divorzio.»

            Non è che fossi contraria al divorzio, fra di noi era tutto finito già da tempo. Ma i bambini?

            «I bambini ovviamente verranno con me. Chiederò un divorzio per tua colpa. Ho le carte per dimostrarlo. Vi ho fatto seguire da un investigatore in quegli squallidi alberghi. Sono stato io, anonimamente, ad avvertire la clinica della vostra tresca…»

            Adesso tutto era chiaro. Sicuramente aveva una relazione e aveva trovato come liberarsi di me.

            Compresi subito che dovevo trovarmi un lavoro, altrimenti non mi avrebbero affidati i bambini. Presi anche una baby sitter, di portarli da mia suocera non era davvero il caso.

            Ovviamente essendo avvocato, per lui era tutto più facile. Io trovai un’avvocatessa in un consultorio femminile, le raccontai la mia storia. Lei prese tempo per studiare il caso.

            «Non ha molte speranze» Il suo esordio mi gelò.

            «Che vuol dire?»

            «A parte che essendo suo marito avvocato deve aver già pianificato da tempo il divorzio.

            È sicura di non aver conservato gli indizi del tradimento di lui?»

            «No, non ci ho pensato. Non ho mai guardato al divorzio come a una possibilità, tranne forse quando la mia relazione si è fatta più stretta. Sono stata una sciocca, lo so, ma non voglio perdere i bambini.»

            «Si deve preparare al peggio. Suo marito ha tutte le carte che documentano il suo tradimento.

            Ha intenzione di chiedere l’affidamento dei figli e la casa.»

            «I miei figli non possono togliermeli!»

            «Mi dispiace, ma non è stata prudente. Se i figli saranno affidati a suo marito potrà chiedere la casa, anche se lei è comproprietaria.»           

            Il divorzio sancì le previsioni più nere. I figli affidati al padre insieme alla casa, io avrei potuto vederli una volta al mese.

            I bambini non capirono cosa stesse succedendo finché non traslocai. Mi trovai un mini appartamento economico in periferia, dovevo far quadrare il mio stipendio con le nuove spese da affrontare. Ieri per la prima volta dopo il divorzio ho potuto rivedere i miei figli, mi hanno chiesto perché non torno a casa, perché quando chiedono di me alla nonna, lei finge di non sapere e il papà risponde che sono troppo impegnata al lavoro. Ho fatto finta di sorridere e li ho riempiti di baci poi lui è passato a riprenderli senza una parola di saluto.

            Non riesco più a restare in casa, mi sembra di soffocare. Cammino per le strade con le prime luci dell’alba e non mi accorgo della pioggerellina sottile che mi bagna i capelli. Entro in un bar che sta aprendo adesso e aspetto che accendano la macchina per un caffè. La barista mi guarda, devo avere la faccia sconvolta. «Ha bisogno di qualcosa?» mi chiede con fare premuroso.

           Scuoto la testa ed esco. Affondo le mani nelle tasche dell’impermeabile e continuo a camminare verso il molo. Mi siedo su una panchina. Si è alzato il vento e la risacca del mare sbatte contro il muro del molo. Sono completamente fradicia, ma non lo sento, non m’importa. In fondo la mia vita non ha più nessuna importanza. Guardo affascinata il risucchio dell’acqua. Farla finita.

            Un salto e via giù nell’acqua. Mi alzo e faccio due passi verso il bordo, poi… poi una mano mi prende il gomito.

            «Venga via da lì.» Mi volto lentamente e attraverso il velo di lacrime intravedo il volto della barista. «Non è così che si risolvono i problemi.»

            «Ma lei che ne sa!» le urlo mentre cerco di liberarmi.

            «Lo so perché qualche tempo fa anch’io stavo per fare il suo stesso sbaglio e qualcuno mi ha fermato.»

            La guardo instupidita e mi arrendo. Mi trascina al bar e mi mette davanti ad una tazza di tè fumante, mi asciuga le lacrime senza chiedermi nulla.

             Grazie a un’estranea ho ricominciato a vivere, lentamente, faticosamente. Vivere per riconquistare i miei figli e cercare una luce in fondo alla via.

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