Il piccione becchettava tranquillamente le molliche che la mia vecchia gli aveva buttato ed io lo tenevo sotto controllo fingendo di masticare uno spago che avevo trovato in giardino.
Avevo adocchiato un pezzo di pane un po’ più grosso degli altri, proprio vicino a me, e aspettavo il momento opportuno per prenderlo.
Ovviamente fu un caso che anche il piccione, in quel momento avesse la stessa idea.
Così mi beccò sul tartufo e dovetti fare marcia indietro dolorante.
Mi rintanai sotto la tettoia e rimasi a osservarlo con propositi non certo amichevoli.
Non so esattamente cosa successe, forse devo aver schiacciato un pisolo e quando riaprii gli occhi al posto del giardino, c’era una strana distesa fatta a forma di scacchiera.
Era un posto desolato con oggetti sparsi e pezzi di scacchi caduti per terra. Il cielo era di un grigio uniforme e in lontananza una strana piattaforma che galleggiava nel cielo andò delineandosi man mano che si avvicinava.
«E’ la città dello Stregatto» disse una voce accanto a me.
Mi volsi una ragazzina con i boccoli biondi con un vestito rosso che sembrava uscita da uno di quei libri di fiabe che piacciono tanto alla vecchia, mi guardava di sottecchi. «Non credo di averti mai visto da queste parti. »
«Sì, in effetti, è la prima volta e non so come ci sono arrivata.»
«Tranquillizzati, stai sognando. Io mi chiamo Alice e tu?»
«Sheela. Quella città non è pericolosa, vero?»
«Lo Stregatto? No, si diverte solo a fare dispetti.»
Era una strana città. Era formata dal viso dello Stregatto con due grandi occhi celesti, i baffi e una serie di torri e case a forma di teiere e pezzi di scacchi.
Ci vide, fece “OH!” aprendo la bocca e una serie di piccioni ne uscì e, formando uno stormo, si gettò in picchiata su di noi.
«Corri!» urlò Alice, ma vi assicuro che io mi ero già messa a correre.
Eravamo inseguiti non solo dai piccioni, ma anche dal suono delle risate dello Stregatto.
«Per di qua.» disse Alice infilandosi in un buco scuro.
La seguii, forse lei sapeva dove andare. Avevamo lasciato i piccioni alle spalle e strisciavamo nel tunnel quando in lontananza il chiarore del sole quasi ci abbagliò. Sbucammo in una bella radura. Il cielo era azzurro senza neppure una nuvoletta, con un leggero venticello che rendeva piacevole il calore del sole.
Il prato era pieno di fiori multicolori. Alcuni di essi avevano uno strano aspetto e posai il mio tartufo sulla corolla per sentirne il profumo.
Il fiore si scosse e mi spruzzo un liquido.
«Etciù!» starnutii.
«Così impari a farmi del male.» disse il fiore.
«Non volevo farti del male, solo sentire il profumo. Ma tu parli?»
«Certo che c’è di strano. Cosa ci fai qui?»
«Mi ha portato Alice.» Mi voltai per indicarla, ma della ragazzina nessuna traccia.
«Adesso come faccio a tornare a casa?»
«Aspetta adesso chiamiamo il Dodo e vedrai che in un attimo sarai a casa.»
Tutte insieme i fiori si misero a cantare una nenia che mi fece subito chiudere gli occhi, per cui ho dei ricordi confusi sul Dodo (era veramente arrivato?), sul vortice che mi riportava a casa. So solo che riaprendo gli occhi vidi il piccione a pochi centimetri da me. Feci un salto e lui volò via.
Non fu molto coraggioso da parte mia, ma rientrai subito in casa acciambellandomi al sicuro nella mia cuccia. Di avventure per quel giorno ne avevo abbastanza.
Omaggio a “Alice”
Il dipinto è di Sergey Tyukanov.

