Muovo le mani, cercando di sapere. Dal tatto sembrerebbero lenzuola. Quindi sono in un letto.
Perché, e dove? Non ricordo, non ricordo.
La testa della paziente ciondola fuori dal cuscino, cauta una mano di donna la sposta delicatamente.
Nella stanza, immersa nella penombra, una donna con il capo avvolto in un velo, un semplice shayla, sta vegliando l’ammalata. La porta si apre per far entrare il medico di turno con l’infermiera.
La donna esce silenziosamente.
«È sempre qui?» chiede il medico.
«Credo che si senta in qualche modo responsabile. Da quando la signora Berti è stata ricoverata, non l’abbandona un momento.»
«Comprensibile. Mi passa la sua cartella clinica? Vediamo, si certo. Una bottiglia di acido che doveva finire sul viso della musulmana lanciata da suo marito, ha investito invece la signora Berti, che le ha fatto da scudo. Per fortuna era quasi di schiena. Comunque i danni sono gravi. Prepariamola per un intervento di ricostruzione, domattina.»
Cosa hanno detto? Bottiglia, acido? Noooo!
Erano giorni che stavo preparando le carte per una delle tante udienze processuali di violenza sulle donne. Quella mattina ero passata dal Centro Antiviolenza per le Donne, cui due volte la settimana davo il mio contributo volontario come avvocatessa, per radunare le carte e scappare al Tribunale, quando c’era stato un certo scalpiccio davanti alla porta. Una donna stava battendo i pugni freneticamente per entrare e quando la porta si era aperta era rimasta interdetta, poi si era quasi voltata per scappare.
A questo eravamo abituate. Quasi tutte le donne che si presentano alla nostra porta, poi ci ripensano. Patrizia, una delle volontarie, l’aveva fermata afferrandola per un braccio.
«Hai problemi? Tuo marito ti picchia?» Su questo non c’erano possibili dubbi. La donna aveva un labbro rotto e il volto tumefatto. Si era lasciata portare all’interno del centro e si era rannicchiata in un angolo, piangendo sommessamente come un animale ferito. Dondolava il suo corpo avanti e indietro, mugolando il suo terrore. Era stata medicata, io ero dovuta andare al Tribunale per l’udienza, ma avevo detto che sarei ritornata per sapere della nuova arrivata.
In Tribunale l’ennesimo rinvio, per cui ritornai quasi subito.
Aisha, così si chiamava la donna, stava parlando con la psicologa. Almeno tentava di parlare con il suo italiano sgangherato e la pronuncia poco comprensibile dovuta al suo labbro rotto.
Mi sedetti accanto per ascoltare la sua storia, anche se sapevo già l’iter. Erano racconti ricamati sulla stessa trama: matrimoni combinati, lei data in sposa a quindici anni, il marito violento che la picchia perché non gli dà figli, il divieto di uscire e di incontrare altre persone. Poi la svolta. Lui ha conosciuto un’altra donna e vuole liberarsi di lei. Come, è facile capirlo. Ha anche parte delle vesti bruciate.
Interrompo il colloquio con la collega e le chiedo se è entrata legalmente in Italia, se ha un passaporto. Fa cenno di sì con la testa ed estrae un passaporto sgualcito dalla tasca.
La osservo attentamente. A prima vista sembra tutto regolare. Aisha ha sposato il marito tre anni fa in patria per procura e poi lui ha fatto il richiamo. Quindi la ragazza ha diciotto anni, anche se le sue guance sono scavate e lo sguardo è da animale impaurito.
«Aisha, per prima cosa devi sporgere denuncia contro tuo marito.»
Lei si ritrae all’indietro e mette le mani davanti alla faccia, è terrorizzata.
«No, sono morta se lo faccio.»
«Ascoltami, se non lo fai, può accusarti di abbandono del tetto coniugale e pretendere che torni da lui. Adesso vieni con me al Pronto Soccorso, lì ti rilasceranno una dichiarazione delle tue ferite e poi andremo in Questura a denunciarlo.»
«E dopo, dove andrò?»
«Ti troveremo una casa protetta fino a quando il Tribunale non condannerà tuo marito. In ogni caso non dovrai ritornare da lui.»
Alla fine si lasciò convincere e la portai in Ospedale e poi in Questura. Lì ero ormai di casa, purtroppo. Storie come queste erano in continuo aumento.
«Una vera canaglia, suo marito» mi disse in confidenza il vice ispettore «fa caporalato e sospettiamo che sia invischiato in traffici ancora più loschi. Adesso facciamo partire l’iter della diffida, ma è meglio che la teniate nascosta fino a quando tutta la pratica non sarà completata. Non garantisco sulla sua incolumità.»
Questa parte era la più difficile, trovare un posto sicuro dove tenerla fino al completamento della pratica. Certo, era già un passo avanti il fatto che il marito fosse sotto il mirino della polizia. Per ulteriore scrupolo la portai dal nostro fotografo convenzionato, in maniera che oltre al referto medico restasse traccia di come l’uomo l’aveva ridotta. Qui il problema che si pose era il divieto di essere fotografata per la religione musulmana. Dovetti ricorrere a tutta la mia arte forense per convincerla che anche quella sul passaporto era una foto e che quindi per motivi di necessità era permesso. Poi la riportai al Centro.
«Patrizia, ci vuole un posto dove nasconderla.»
«La polizia?»
«Stai scherzando? Quelli sono riservati ai collaboratori, non ai comuni mortali. Potremmo provare dalle suore.»
«No. Ieri mi hanno fatto sapere che sono al completo. Hanno dovuto aprire le porte ai profughi, in ogni caso non sarebbe al sicuro. Senti, non potresti portala a casa tua per qualche giorno, fino a quando non si sistemano le cose?»
«Non sarebbe professionale.» Non era solo per quello. Da quando avevo perso mio marito, mi ero barricata in casa. All’inizio uscivo solo per il mio lavoro allo studio legale, poi mi ero lasciata coinvolgere da Patrizia nel volontariato, ma questo era un’altra cosa. No, non era possibile.
«Ascolta. In questo momento non ci sono fondi per affittarle una camera, dalle suore non può andare, qui non la possiamo lasciare. Dove la mettiamo? Lasciarla da sola significa consegnarla al suo carnefice. Solo per qualche giorno, finché non riesco a trovare una casa sicura dove alloggiarla.»
Alla fine, mi ero lasciata convincere. La portai a casa mia, le consegnai il necessario per una doccia e uscii, di nuovo, per comprarle dei vestiti nuovi e da mangiare.
Mi ritrovai al quartiere arabo a comprare vestiti come se stessi per andare in vacanza. Mi stavo facendo coinvolgere. Comprai del couscous già preparato, della frutta e girai per le bancarelle chiedendomi cosa mangiasse di solito.
Al ritorno aprii la porta con le chiavi e la chiamai per non farla spaventare.
«Dammi quei vestiti insanguinati e bruciati, li conserveremo come prova.»
In fondo Aisha era una donna come tutte noi, incapace di resistere al richiamo di un vestito nuovo.
Se li provò davanti a uno specchio, sorridendo beata come una bambina. Poi si fece seria e me li porse dopo averli ripiegati.
«Non ho soldi.»
«Non importa. Mi farò rimborsare dal Centro, puoi prenderli tranquillamente.» Mi guardò interdetta, la bugia sul rimborso l’aveva convinta e poi moriva dalla voglia di un vestito nuovo.
A quell’età, un vestito nuovo è una cosa importante e lei chissà da quando tempo non ne aveva di nuovi. Scoprii poi, che tutto il suo vestiario consisteva in un paio di ricambi nell’intimo e quel vestito con cui era scappata.
Le indicai il letto della camera degli ospiti che, io e Paolo, non avevamo mai usato e accesi la lampada sulla scrivania del mio studio per esaminare i documenti.
Il suo caso non era semplice. Avevamo buone carte per riuscire a far condannare suo marito e chiedere il divorzio, ma a quel punto sarebbe venuta a cadere l’ala protettrice della nazionalità italiana trasmessale con il matrimonio e sarebbe stata rimpatriata. Comunque prima di arrivare a ottenere una sentenza ci sarebbe voluto tempo, potevo trovare degli escamotage per farla restare.
La cosa più semplice era trovarle un lavoro, ma fino a quando non ci sarebbe stata la diffida al marito, era meglio che la ragazza non uscisse da casa.
Posai la penna e massaggiai le tempie. Cercai di ricordare com’ero io alla sua età.
A diciotto anni avevo finito il liceo e fatto domanda per l’Università. Al terzo anno avevo incontrato Paolo, un assistente universitario, con cui avevo iniziato a uscire. Poi mi ero laureata e per due anni avevo dovuto lavorare gratuitamente in uno studio prima di ottenere l’abilitazione professionale. Eravamo andati a vivere insieme. Una sorta di limbo prima delle decisioni importanti. Mi ero specializzata in diritto societario e nel civile ed ero entrata nello studio più grosso della città.
Così finalmente c’eravamo sposati. Lui faticava a venir fuori dalle rigide regole accademiche, ma era il suo mondo e i miei onorari ci permettevano una vita tranquilla senza lussi, ma non ci importava.
L’unica pecca: la mancanza di figli. All’inizio ero troppo occupata a riuscire a ottenere un “posto” in studio, poi quando finalmente avevamo iniziato a fare progetti, con le analisi avevamo scoperto che Paolo aveva un’anemia mediterranea di quelle fulminanti e non c’era stato niente da fare.
Prima che arrivasse il suo turno per il trapianto del midollo, mi aveva lasciato sola con tutti i rimpianti per una vita rimasta solo abbozzata.
Avevo preso la foto di Paolo e la stavo guardando con una lacrima sospesa fra le ciglia.
Sentii una presenza dietro di me. «È morto, vero?» mi sussurrò Aisha cingendomi con un braccio il collo. Annuii e mi lasciai andare a un pianto dirotto come non facevo da tempo.
Lei mi accarezzò i capelli e mi lasciò sfogare. Era strano. Fino a poco prima io ero l’adulta, quella che sapeva tutto e tranquillizzava. Adesso era lei a consolarmi. Ero un po’ imbarazzata, mi asciugai gli occhi e mi tirai su. «È morto da due anni, ma è come se fosse ieri. Non preoccuparti, adesso passa.»
Aisha si alzò e andò nella sua stanza. Forse l’avevo offesa, ma non ero abituata ad aprirmi con estranei.
La seguii nella sua stanza. «Ascoltami, io domattina devo andare nello studio legale, dove lavoro.
Poi passerò al Centro per vedere se ci sono novità. Tu non devi assolutamente uscire, né affacciarti al balcone. Tuo marito non deve sapere dove sei. Ti lascio tre numeri telefonici in evidenza: il mio telefonino, quello del Centro e quello della Questura. Non chiamare amiche, in qualche modo potrebbero passare l’informazione ai loro uomini e questi a tuo marito. C’è la televisione, il frigorifero è pieno, ci sono libri puoi cercare di imparare l’italiano o sentire musica.
Fai quello che più ti piace, ma assolutamente non uscire. Hai capito?»
Mi fece segno di sì con la testa e andai a dormire.
La mattina dopo, la trovai che stava preparando il tè per me. Facemmo colazione insieme e uscii.
Passai quasi tutta la mattina fra la Cancelleria e il Tribunale. Ritornai in studio per aggiornare una pratica, feci dei conti veloci per dei decreti ingiuntivi che passai a un assistente e mangiai un’insalata in un bar.
Al Centro avevano ricevuto la visita del marito che aveva battuto i pugni, minacciato querela se non le riconsegnavano sua moglie, ma a questo i miei colleghi erano abituati. Lo lasciarono sfogare e poi lo indirizzarono in Questura.
Tornai a casa, colma di sacchetti alimentari e di pacchetti per lei. Oltre alla biancheria necessaria avevo preso una grammatica italiana. Mi resi conto nell’aprire la porta che finalmente c’era qualcuno di cui potevo prendermi cura. La figlia che non avevo mai avuto, anche se già grande.
Ovviamente Aisha restò nel mio appartamento, di posti sicuri c’era carenza e poi mi stavo abituando ad averla in casa. Mi consultai anche con un legale del mio studio su un’idea che mi era venuta: adottare Aisha.
«Sei sicura?» mi chiese il collega«in fondo la conosci da poco e tu un domani potresti rifarti una vita con un altro uomo. Secondo me ti stai facendo coinvolgere troppo e non è bene.»
«Anche se conoscessi un altro uomo, cosa di cui dubito, Aisha è grande. Non è una bambina. È un modo per metterla al riparo da eventuali estradizioni.»
«Per la legge ci vuole una differenza di 18 anni, qui c’è il requisito, poi tutti i certificati: atto di nascita, assenso dei genitori o loro certificato di morte e, questo è un problema, assenso scritto del coniuge, oltre al fatto che la domanda deve essere presentata dall’adottante e dall’adottato. Lei lo sa?»
«No. Si potrebbe iniziare a chiedere i certificati all’estero e l’ultimo, quello del marito, con il divorzio. Potresti occupartene?»
«Se proprio ne sei convinta, ma ricordati che io non sono d’accordo.»
Così avevo chiesto alla ragazza dei suoi genitori, erano morti, mi raccontò, l’anno dopo il suo matrimonio e lei non era potuta andare ai funerali. Non so per quale motivo non la informai del tentativo di adozione. Forse avevo paura di un suo rifiuto.
Poi c’era stata l’udienza con cui il marito era stato incriminato per violenza ed io avevo subito fatto istanza di divorzio. Contavo anche sul fatto che lui voleva liberarsi della moglie, in fondo aveva tentato di ucciderla. La polizia, approfittando della sua incriminazione, aveva cercato di metterlo in gabbia per tutta una serie di reati, ma il tribunale pur accettando le motivazioni, lo aveva lasciato a piede libero. Poi era arrivato il giorno della prima udienza per il divorzio.
Avevo portato Aisha in macchina fin quasi al Tribunale, l’avevo lasciata con Patrizia ed ero andata a parcheggiare. Nell’andare all’edificio avevo intravisto di spalle il marito, che si muoveva spedito con un involucro sospetto in mano. Accelerai il passo e avevo quasi raggiunto Aisha quando sentii l’uomo che urlava «Cagna schifosa, questo per tutti i guai che mi hai causato!»
Ero praticamente quasi davanti ad Aisha e vidi il terrore nei suoi occhi, poi fui investita dal
liquido corrosivo e non ricordo altro.
Sono qui da qualche mese, non so più quanti. Sono venuti a trovarmi i colleghi del Centro,
Patrizia viene ogni volta che può. È stata lei a porgermi lo specchio dopo le mie insistenze.
Non ho più i capelli e la pelle del cranio è tutta una ruga. La guancia sinistra è bucata in
più punti e deve essere ricostruita e l’occhio sinistro è andato. Metteranno uno in vetro.
«Poteva andarmi peggio,» ho detto«così assomiglio tanto a Satanik, la mia preferita nei fumetti di Magnus». Patrizia, mi aveva stretto la mano senza parlare.
«C’è un tuo collega avvocato che vorrebbe parlarti. Sai, non sapeva se accettavi di farti vedere» cercò le parole «in questo stato.»
«Lo sarò per molto tempo. Ho intenzione di presentarmi così in Tribunale per essere sicura che il giudice non trovi delle attenuanti. Fallo entrare.»
«Ciao» disse Mario, il collega cui avevo delegato la richiesta di adozione. Cercò di nascondere l’emozione di vedermi ridotta in quel modo, ma ero troppo attenta per non vedere i suoi occhi inumidirsi. Si schiarì la voce.
«Lo studio si augura che tu possa tornare al tuo lavoro. Non ti preoccupare, nessuno occuperà il tuo posto, prenditela con calma. Per quanto riguarda l’altra richiesta siamo a buon punto.
Dopo quello che è successo, il divorzio è solo questione di giorni. Tu le carte le avevi già firmate, manca la firma di Aisha.»
Lei era seduta in fondo alla stanza, in disparte, come se fosse un’estranea.
«Aisha, vieni. Ci sarebbero delle carte da firmare, ma solo se vuoi.»
Mario si rivolse direttamente a lei.
«La signora Berti mi aveva incaricato tempo fa di iniziare le pratiche di adozione.
Adesso manca solo la sua firma. Vuole?»
Aisha mi guardò incredula «Tua figlia, vuoi che diventi tua figlia dopo quello che hai passato per colpa mia?»
«Tu non hai colpa.»
«Ci dovrei essere io in quel letto, al tuo posto.» iniziò a piangere «non lo merito.»
«Non è una questione di merito. Vuoi diventare mia figlia?»
Aisha mi guardò con una luce di gioia negli occhi.
«Sì, mamma».
Avevo trattenuto il respiro fino a quel momento. Aisha mi soffocò quasi in un grande abbraccio. Era giusto così. Lei avrebbe avuto tutto il tempo di assaporare finalmente la vita.
Avrebbe trovato un giovane serio ed io sarei finalmente diventata nonna. La ruota della vita aveva ripreso il suo corso.