L’AMORE CHE NON FINISCE
Pubblicato sul Corriere della Sera
e nell’Antologia “Amori Moderni” sempre ad opera del Corriere
Ricordi le nostre passeggiate in bici, la domenica, per far scorrere il tempo? Una casa divenuta all’improvviso troppo grande per noi. Un senso di vuoto pauroso che ci stringeva alla gola.
E tu che mi dicevi: “Su, andiamo a scoprire il mondo” e partivamo con la macchina senza meta, fermandoci in piccoli borghi ad ammirare un pezzo di castello diroccato o sedendoci sotto una quercia secolare per ammirare il paesaggio di una campagna.
Era accaduto il miracolo: ci eravamo ritrovati. Sarà stata per la tua testardaggine a non lasciarci andare e alla fine avevamo vinto noi. Noi, gli amanti della terza età.
Io e mio marito. Un nuovo equilibrio. Avevo anche ricominciato ad andare con regolarità dal parrucchiere, mi curavo con più attenzione nel vestire. Le colleghe mi prendevano in giro. “Dai, confessa che ti sei fatta l’amante” diceva una. “Che età ha? Di certo non può essere giovane”.
Io scuotevo la testa con un sorriso misterioso. Ogni tanto uscivamo anche con qualche altra vecchia coppia di amici. Ci scambiavamo le notizie sui figli, l’ultimo libro letto, il film appena uscito.
Ridevamo per le barzellette trite che continuavano a saltare fuori quando non c’erano più argomenti e tu mi sorridevi dall’altra parte del tavolo con complicità guardandomi attraverso il riflesso del calice di vino rosso.
Gli altri ci osservavano con imbarazzo, come se il nostro fosse un comportamento sconveniente.
Che ne sapevano loro del nostro ritrovarci, della nuova intesa vissuta come due ladri che rubano attimi preziosi, come se fossero stati gli ultimi. Forse avevamo paura. Non ti puoi permettere illusioni alla nostra età. Quando capivi che la malinconia mi assaliva, mi venivi vicino e posavi la tua mano sulla mia.
“Guardami – mi dicevi in quei momenti – ci siamo ritrovati ed invecchieremo insieme. Cosa ti spaventa, una ruga in più? Cosa vuoi che m’importi, non ho più i muscoli di un tempo, mi fa male spesso la schiena e sto mettendo su un po’ di pancetta, allora cosa cambia? Ti piaccio di meno per questo?”. Mi sentivo rassicurata e tornavo a sorridere alla vita.
Poi ci fu quella strana telefonata di Arturo, mi voleva parlare. “In privato, Federica, e vedi di non farne parola a tuo marito”. “Non puoi dirmi almeno di che si tratta?”. Non mi andava di fare le cose di nascosto. “È meglio così, credimi. Vieni nel mio studio, ti va bene alle quindici?”. “Va bene, ci sarò”.
Non sapevo cosa pensare. Con Arturo ci frequentavamo da quando eravamo ancora fidanzati. C’eravamo sposati nello stesso periodo ed era una delle coppie con cui uscivamo più spesso.
Il loro matrimonio rasentava la banalità. Ognuno di loro conduceva una vita propria. Lui psichiatra, lei avvocato. Credo che si vedessero solo in occasione delle cene con gli amici. Mi presi il pomeriggio libero e mi affrettai al suo studio.
La segretaria mi guardò con fare interrogativo, non ero una loro paziente. Restò stupita quando Arturo venne alla porta per farmi accomodare. “Vieni, entra pure. Accomodati” disse indicandomi una poltrona davanti alla sua scrivania. Chiaramente era in imbarazzo, tossicchiava, tormentava un fermacarte posato su di un mucchio di fogli.
“Allora, cosa volevi dirmi con tanta urgenza?” chiesi alla fine. “Ascoltami con attenzione. Sei una donna intelligente e con te non credo ci siano bisogno di giri di parole. Hai mai fatto caso che tuo marito ripete spesso le parole? Dimentica i nomi, le cose?”. “Ma dai, alla nostra età mi sembra normale. Anche io spesso non ricordo il nome del mio autore preferito”, ridacchiai sollevata: “Mi hai fatta venire per questo?”.
Arturo mantenne lo sguardo serio, iniziai ad avere paura. Cosa c’era che non andava? “Senti Federica, ho avuto bisogno di una perizia per il villino che devo vendere ed ho chiesto a Daniele di occuparsene.
È il suo lavoro, ha uno studio con un architetto affermato. Mi ha già fatto altri lavori in questi anni.
Lo sapevi?”. “Sì, certo. So che ha lavorato per te in qualche occasione. Non mi ha parlato di quest’ultimo lavoro. Cosa c’è, qualche guaio?”. Ero già sulla difensiva. “Daniele è ammalato, Federica.
Sai qual è la mia professione. L’ho osservato. Non ricorda. È furbo in questo, prende appunti su tutto perché inconsciamente sa che non è in grado più di farcela. Non può più continuare a lavorare in queste condizioni. Con il mestiere che fa, uno sbaglio di calcolo e crolla un edificio.”
Ero lì che mi tenevo disperatamente stretta ai braccioli della poltrona. “Ma che stai dicendo, mio marito non è ammalato, me ne sarei accorta! E poi che razza di malattia stai ipotizzando, si può sapere?”. Mi accorsi di stare urlando, quando l’infermiera mise dentro la testa ed Arturo la rimandò indietro con un cenno. “Lo so, non è facile da accettare. Tuo marito ha l’Alzheimer. Se riusciamo a prendere in tempo la malattia possiamo evitare che degeneri. Ma me lo devi portare al più presto. Guarda che lui non accetterà mai d’essere ammalato. Questa è la parte più difficile. Devi trovare il modo di fargli lasciare lo studio al più presto, è troppo pericoloso. E poi devi stargli vicino.” Arturo parlava veloce mentre mi porgeva un bicchiere d’acqua.
Lo guardavo stravolta. “Federica, portamelo, con una scusa. Lo ricoveriamo subito al centro.
Prima sappiamo la diagnosi e prima potremo intervenire. Se vuoi parlo io con il socio di tuo marito.
Gli dirò che per ora ha un forte esaurimento nervoso e non è in grado di continuare il lavoro. Ti rendi conto che se succede qualcosa tuo marito, ed adesso anche tu, avete una responsabilità penale?”.
Non stava scherzando.
Tornai a casa distrutta. Piansi fino a quando mi resi conto che stava per rientrare. Mi sciacquai il viso, mi truccai. Iniziò così un periodo di cui ho poca memoria, impegnata com’ero a far apparire tutto normale. Convinsi mio marito ad andare da Arturo per degli incubi che mi inventai aveva ogni notte. Poi gli proposi di andarcene tutte e due in pensione. “Almeno così ci godiamo in bellezza questi anni”, dissi ammiccando come se gli stessi proponendo qualche gioco erotico. E nel frattempo avevo iniziato a raccogliere quei piccoli pezzi di mosaico che sintetizzavano quella parola mostruosa, “Alzheimer”.
La cosa più penosa fu dirlo a mia figlia. Avevo sperato in un aiuto per convincere il padre a lasciare il lavoro, ma alla fine fui costretta a farla parlare con Arturo. Adesso la malattia, infischiandosene di tutte le medicine, sta divorando la mente di mio marito. Io sono qui che lo guardo dormire, aspettando che apra gli occhi cercandomi come se fossi l’unica sua certezza, in un mondo che sbiadisce lentamente in contorni confusi senza nomi. “Sei qui?”, chiede aprendo gli occhi. So che ha dimenticato il mio nome, ma non importa. “Sì, amore, io sono qui.” Fino all’ultimo momento, anche quando non mi riconoscerai più, io ci sarò per lottare anche contro di te, per continuare a darti una parvenza di vita.

