RITORNO

dall’Antologia “Essenza di un’isola” selezionato da IO DONNa e Acqua D’Elba

Dopo giorni di scirocco, il vento si era calmato ed il mare aveva smesso di infuriare sulla spiaggia.
A guardare adesso l’acqua che lambiva tranquilla i miei piedi scalzi non si sarebbe mai immaginato il rombo del mare che sbatteva contro gli scogli, arrampicandosi veloce con la schiuma bianca e densa. Solo la patina sospesa della sabbia nell’acqua rivelava i movimenti delle correnti.

E poi c’erano le alghe. Quelle strisce lunghe e sottili di un verde marcescente tendente ai toni più scuri che i vortici avevano strappato dal fondo per ammassarle lungo la riva. Formavano un serpentone , misto a frammenti di conchiglie, rami spezzati che il vento aveva rotto e trasportato fino alla battigia,
che fluttuava con il rifrangersi delle onde.

Ne respirai a fondo l’odore intenso. La sabbia si era asciugata, dopo la pioggia dei giorni precedenti, e adesso i mille buchi che la componevano scricchiolavano sotto la pianta dei piedi. Mi volsi a guardare dietro. La spiaggia di fine settembre era deserta, l’unico indizio di umanità erano le impronte che avevo lasciato e che la risacca stava pian piano cancellando. Ero alla fine di un mondo.

Tornai a guardare l’orizzonte con il sole che abbassandosi traeva infinite sfumature sulle praterie di posidonie che s’intravedevano a pelo d’acqua. Cercai uno scoglio da cui poter fotografare quel contro luce splendido come una pennellata di Monet sull’acqua. Sapevo che la foto non avrebbe trasmesso l’emozione e la magia del momento, ma almeno potevo tentare.

Un vento leggero mi scompigliò i capelli, sciolsi il laccio che li legava scuotendo la testa per catturare quella brezza salmastra. La volevo portare con me, nella mia grigia città dove il mare era solo un ricordo lontano dell’estate ormai finita.

Trovai uno scoglio asciutto, proprio dove la spiaggia si curvava prima del mare aperto, e mi sedetti, la testa poggiata sui pugni chiusi. Avevo le mani sporche di sabbia, ma non importava.

In fondo, all’orizzonte, il sole stava tramontando dietro lo scoglio spezzato dei due innamorati. A vederlo da così lontano sembrava un pezzo unico, ma c’ero andata a remi con la barca che avevo noleggiato, giorni prima, e gli scogli erano spezzati, proprio come la leggenda narrava.

“In alto su quel promontorio abitava, ai tempi, un castellano che aveva una bellissima figlia. La moglie era morta e lui l’aveva cresciuta come un fiore e come un giglio essa era bella. Molti l’avevano richiesta in moglie, ma il padre, segretamente geloso, non voleva distaccarsi da lei. La fanciulla però si era innamorata di un povero pescatore e ne era ricambiata. Di parlare di nozze al padre non era affatto il caso e quindi i due innamorati progettarono di fuggire.

Di notte tarda la fanciulla si calò dalla finestra fino alla barca dell’innamorato e fuggirono sul mare. Il padre però non era tranquillo, sua figlia era stranamente arrendevole negli ultimi giorni e questo non era nel suo carattere, perciò si era appostato alla finestra per sorvegliarla.

Quando si accorse della fuga, prese la sua lancia e la scagliò contro la barca maledicendola.

La barca si spezzò ma, prima di perire, i due amanti supplicarono il Cielo di non separarli e così furono trasformati in due scogli uniti sul fondo per l’eternità.”

Il racconto lontano di un amore tragico. Ero tornata sull’isola per ritrovare l’eco di un amore non ancora sopito. In bocca avevo ancora l’amarezza di parole non pronunciate, che avrei voluto dire, ma erano rimaste in gola. Un richiamo non profferito, una lacrima ingoiata per non mostrare l’anima lacerata.

Il sole mandò l’ultimo bagliore rossastro e mi riscossi. Fra poco sarebbe calata l’oscurità e dovevo tornare. Dovevo tornare… una macchia bianca a fianco di una piccola duna attrasse la mia attenzione. Un giglio marino profumato che bucava con il suo esile e corto stelo verde la sabbia.

Lo colsi, ne aspirai il profumo, dolce e sensuale, e finalmente piansi.

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