Di tanto in tanto mi ritorna in mente quella giornata di fine marzo e, anche se cerco di scacciarla via, si riaffaccia con tutti i suoi dolorosi momenti.
Quella mattina mio figlio Edoardo di cinque anni si era svegliato madido di sudore e con tante piccole macchioline sul corpo. “Ci siamo, è morbillo” mi ero detta, una di quelle malattie fatidiche che i bambini prima o poi devono affrontare. L’avevo coperto bene, tranquillizzato mio marito che stava per andare al lavoro e mi ero avviata verso la porta.
«Aspetta un attimo ad andar via, avviso Matilde che Edoardo non andrà a scuola e di non far venire Davide da noi.» Mi ero buttata uno scialle sulle spalle e mi ero diretta al villino di fronte al mio, dove abitavano Matilde e Giacomo con il loro figlioletto Davide.
Avevamo quasi la stessa età, come i nostri bambini e ovviamente avevamo fatto amicizia. Noi abitavamo nel piccolo villaggio da sempre, come le nostre famiglie, loro, invece, si erano trasferiti subito dopo il matrimonio e Davide era nato qui a Bocciasco, quasi nello stesso periodo in cui era nato Edoardo. I due piccoli erano cresciuti insieme, giocavano nel giardinetto davanti alle nostre case e anche noi, genitori, ci frequentavamo.
Avevo bussato da Matilde e, quando mi aveva aperto la porta, l’avevo informata della malattia di mio figlio e che era meglio, nei prossimi giorni, che Davide non venisse a trovarlo. Matilde aveva ringraziato, fatto gli auguri per il mio piccolo e chiuso la porta, con un viso tirato e strano che non ero riuscita a definire, ma a questo ripensai dopo, con il senno di poi.
Ritornai in fretta a casa per far andare al lavoro mio marito e telefonai al medico per pregarlo di passare a visitare Edoardo.
L’acquaio della mia cucina era sotto una grande finestra che dava sul viale che separava le due case. Così alzai gli occhi quando, di lì a poco, sentii il rumore della macchina di Matilde che saliva la rampa del garage per accompagnare suo figlio a scuola. Era un rumore normale, quasi quotidiano, perché a turno ci davamo il cambio per andare a lasciare e a prendere i nostri figli all’asilo che era situato nel vicino villaggio. Il nostro, come altri villaggi, era sorto attorno all’area della fabbrica siderurgica che, da un secolo, dava lavoro all’intera zona. Non ci pensai più, come ai riti della quotidianità che compi meccanicamente e che non lasciano quasi traccia nella memoria.
Ero troppo occupata a sorvegliare il sonno di Edoardo, poi era arrivato il medico che mi aveva lasciato un foglietto sull’andamento generale della malattia, i comportamenti e le misure da adottare, non potevo certo prestare attenzione agli accadimenti esterni della giornata.
A ora di pranzo, mentre apparecchiavo la tavola sentii, più che vedere, la macchina di Matilde e diedi per scontato che fosse andata a prendere suo figlio. Aldo, mio marito, preferiva mangiare un boccone a casa piuttosto che servirsi della mensa in fabbrica e così non avevamo mai tempo per scambiare due parole che lui doveva già tornare al lavoro.
Incominciai a sentire un rumore continuo di macchine verso le 18,00, subito dopo il ritorno a casa di mio marito. Bussarono alla porta e Aldo andò ad aprire, poi mi sentii chiamare.
«Cara, i signori vogliono sapere se hai visto o sentito qualcosa di strano oggi.»
Mio marito aveva fatto accomodare un poliziotto che mi guardava con aria interrogativa.
«Perché» chiesi «che succede?»
«È sparito il bambino dalla casa di fronte. Lei lo ha visto?»
«Davide? Sparito? Non è possibile.» sentivo un peso premermi sul petto. «È il compagno di giochi di mio figlio, ma oggi lui non è andato a scuola, ha il morbillo. Stamattina sono andata ad avvisare Matilde che non sarebbe andato a scuola e che era meglio non far venire Davide da noi finché la quarantena non fosse finita.»
«Lei ha visto Davide?»
«No, andavo di fretta. Mio marito doveva andare al lavoro e l’avevo pregato di aspettarmi per non lasciare il bambino solo.»
«Quindi non sa se è andato a scuola?»
«Ho visto la macchina salire la rampa del garage…»
«Ed ha visto il bambino?»
«Ecco non saprei, la figura del guidatore si vedeva chiaramente, ma i bambini sono bassi sul loro seggiolino e non sempre s’intravedono, specie da lontano. Che é successo a Davide?»
«La signora sostiene di aver accompagnato a scuola il bambino, di averlo fatto scendere dalla macchina nel viale e di aver proseguito verso un centro commerciale, ma Davide a scuola non è mai arrivato e nessuno dei suoi amici l’ha visto nel viale.»
«Non è possibile. Ho sentito la macchina rientrare all’ora di pranzo ed ho dato per scontato che Matilde fosse di ritorno dalla scuola. Lo state cercando? Forse è meglio che vada da Matilde. Avrà bisogno di un po’ di conforto.»
«È meglio di no, signora, c’è una mia collega con lei»
«State organizzando squadre di ricerca? Vorrei unirmi a voi, se permettete.» chiese mio marito.
«C’è la squadra della protezione civile che si sta organizzando, si unisca a loro se vuole. Arrivederci.»
«Certamente.» rispose mio marito e si agganciò al telefono per concordare dove incontrarsi.
Io andai a versarmi un bicchiere d’acqua che mandai giù lentamente per cercare di schiarirmi le idee,
poi Edoardo, che si era svegliato per il trambusto, mi chiamò e per un po’ non ebbi tempo di riflettere.
Quei giorni li ricordo sfocati, come attraverso un velo.
Giacomo che era addetto alle pubbliche relazioni nell’azienda, spesso restava per alcuni giorni fuori casa e quella mattina era partito presto, ma fu subito richiamato e rimase in casa in attesa di notizie.
Noi li vedevamo attraverso i vetri della casa perché ci era stato chiesto di non andarli a trovare da parte degli investigatori. Due giorni dopo il corpo di Davide venne ritrovato.
Era finito dentro uno dei canali che fiancheggiano le coltivazioni. Un corpicino ancora riconoscibile, con addosso i vestiti e il giubbotto che di solito metteva per andare a scuola.
Lo capimmo subito dagli urli che provenivano dalla villa di fronte, poi una macchina portò i genitori all’obitorio per il riconoscimento. Quel residuo di speranza che era rimasto in fondo ai nostri cuori si dissolse in un momento.
A Edoardo era passata la febbre e anche le macchioline andavano scomparendo. Mi aveva chiesto notizie del suo compagno ed io avevo tergiversato spiegando che fin quando non fosse guarito non poteva rivedere i suoi compagni e che anche Davide non stava bene.
Non mi piace mentire, mi fa sentire in colpa, ma non sapevo come dare la notizia a mio figlio e chiesi aiuto alla psicologa della scuola.
Intanto le indagini continuavano. Come era finito il bambino nel canale? Era abbastanza distante dalla zona della scuola e, in ogni caso, proprio per evitare pericoli, era fiancheggiato da un muretto. Lo zainetto non fu mai ritrovato e non c’erano segnalazioni di persone estranee pericolose nella zona. Finita la quarantena Edoardo ritornò in asilo ed io fui libera di bussare alla porta di Matilde. Suo marito si era messo in aspettativa in attesa che venisse chiarita la situazione.
Matilde mi aprì la porta e con un sorriso stanco mi fece cenno di entrare. Adesso che ero lì non riuscivo a spiccicare una parola. Giacomo era seduto in poltrona e si trasferì in un’altra stanza quando entrai.
«Scusa, forse non dovevo venire, ma tu sai quando ero affezionata a Davide.»
«Si, certo. Vuoi qualcosa: un tè?»
«No, niente. Grazie. Volevo sapere quando si faranno i funerali.»
«Non lo sappiamo. Stanno terminando l’autopsia. Ci faranno sapere.» Matilde era strana, apatica come se tutto le scivolasse addosso. Mormorai qualche altra parola e mi congedai.
A casa preparai un caffè e lo bevvi lentamente accendendo una sigaretta dopo anni che avevo abbandonato il fumo, esattamente da quando ero rimasta incinta.
Al quinto mese di gravidanza avevo lasciato l’impiego, ero decisa a crescere mio figlio nel migliore dei modi. Matilde, ripensandoci, mi parlava sempre con nostalgia della sua vita in città. Dei contatti con il mondo dello spettacolo che aveva dovuto abbandonare quando si erano trasferiti qui, fuori dal mondo, come diceva lei. I primi tempi si era adattata a fare vita comune, a partecipare alle manifestazioni del villaggio e a quelle che l’azienda organizzava per i suoi dipendenti, ma, anche se non era sgarbata, a poco a poco si era isolata dal resto della comunità.
Adesso come farà, mi chiesi, che non ha più un bambino di cui occuparsi. Suo marito, prima o poi, sarebbe ritornato al lavoro e lei? Forse il matrimonio non sarebbe durato, c’erano tanti casi di crisi coniugali dopo un lutto così grave.
Al funerale partecipò l’intera comunità con i due genitori devastati, ma ognuno chiuso nel proprio bozzolo. Dopo qualche tempo Matilde e Giacomo vennero chiamati in questura e solo lui tornò a casa, lei era in stato di fermo.
Iniziarono a girare voci, poi la stampa s’impadronì del caso e fui costretta a tenere spento il televisore quando Edoardo era in casa. Dall’autopsia era emerso che l’acqua reperita nei polmoni del piccolo non corrispondeva all’acqua del canale. Non riuscivo più a guardare verso la casa di fronte senza provare un brivido. Mi accorsi che Giacomo aveva preparato due valigie e stava lasciando il villino, così quando Matilde fu riaccompagnata a casa dalla Questura, in attesa del processo, la trovò vuota.
Il tempo di solito è un grande guaritore, ma non in questo caso. Se Matilde si era isolata dalla comunità, adesso era la comunità che la estrometteva. La vedevo, una volta la settimana, andare a fare provviste sempre alla ricerca di centri commerciali fuori zona, con dei grandi occhiali neri e un cappello in testa per cercare di non farsi riconoscere. Avevo bussato una volta, ma non mi aveva aperto e al telefono non rispondeva. In fondo la capivo, la cattiveria della gente non ha limiti.
Avevo regalato un cucciolo a Edoardo che gli tenesse compagnia, per non fargli sentire troppo la mancanza di Davide, il suo compagno di giochi, e devo dire che Poldo, così lo aveva chiamato, gli era di grande aiuto.
Qualche giorno prima dell’inizio della prima udienza in Tribunale, Matilde sparì.
I poliziotti vennero a bussare alla mia porta per chiedermi se avevo visto uscire la signora di fronte, ma io quel giorno avevo accompagnato Edoardo a una rappresentazione scolastica e non sapevo nulla. Dissi che una volta a settimana la vedevo andare fuori a fare provviste, ma per il resto del tempo non usciva. Poi il suo cadavere riaffiorò nello stesso canale dove era stato trovato suo figlio e di lei non si parlò più se non in un trafiletto locale che la dava suicida per il rimorso.
Non le fu concesso un funerale in chiesa e al cimitero c’era soltanto sua madre, che avevo intravisto qualche volta negli anni precedenti.
Giacomo venne a svuotare la casa e la mise in vendita, ma il caseggiato aveva acquistato un alone di disgrazia e per lungo tempo non venne nessuno a visitarla.
Il tempo aveva fatto il suo giro, la scuola era ricominciata e Poldo stava di solito in giardino in attesa del ritorno del suo padroncino. Una mattina non lo vidi più e iniziai a cercarlo.
Non era nel nostro giardino, attraversai la strada e lo intravidi sul retro impegnato a scavare una buca. Tutti i miei sforzi per farlo uscire si rivelarono inutili. Mi guardai intorno e, accertatami che non c’era nessuno in giro, scavalcai il muretto ed entrai. Agganciai Poldo al guinzaglio e lo tirai via dalla buca. Aveva il muso sporco di terra e uggiolava cercando di ritornare al suo passatempo preferito, la caccia alle talpe. La buca era profonda, ma la talpa se l’era svignata mentre lui scavava.
Cercai di ributtare la terra nella buca, non era bello da vedere per gli eventuali acquirenti, e nel farlo salto fuori un quaderno tutto cincischiato dalla copertina nera che doveva essere caduto nel trasloco.
Finii di ricoprire la buca e ritornai a casa con Poldo e il quaderno che avevo messo meccanicamente nella tasca del giaccone che uso per il giardino. Dopo aver pulito Poldo dalla terra, mi sedetti al tavolo della cucina e aprii il quaderno.
Nelle prime pagine c’erano una serie di spirali concentriche fatte con la biro così pesantemente che l’inchiostro quasi passava la pagina. C’erano poi delle pagine con una scrittura spigolosa cui s’intervallavano disegni di triangoli o spirali. Certamente non era stato Davide, come avevo pensato all’inizio, a riempire quelle pagine. Cercai di leggere quelle righe, mi facevano pensare al quadro di Munch “L’Urlo” e dopo un po’ riuscii a decifrare qualche riga, anche se non era facile.
“Mi guarda con occhi cattivi e non riesco a nascondermi.”
“So che ha fatto del male al bambino. È diventato impuro.”
“Nascondersi, bisogna nascondersi.” “Il bambino bisogna che lo battezzi”
“Ora, ora….gli occhi mi perseguitano.” “Devo salvarlo”
Era tutta una serie di frasi senza alcun senso e mi resi conto che era stata Matilde a scriverle.
Misi il quaderno dentro una busta e poi dentro un cassetto, non volevo che finisse nelle mani di Edoardo.
Mi lavai le mani accuratamente, mi sentivo sporca per aver violato il pensiero di una persona morta. Evidentemente Matilde aveva dei problemi di cui non mi ero mai accorta.
Si era fatto tardi, andai a prendere il bambino e preparai in fretta la tavola.
Mi ero ripromessa di parlarne con mio marito quella sera, ma lui aveva il campionato di calcio e lo lasciai tranquillo al suo unico divertimento.
L’indomani mattina accompagnai Edoardo e poi mi diressi al cimitero dopo aver comprato dei fiori.
Nella galleria dei loculi madre e figlio erano affiancati, nel vaso del loculo di Davide c’erano dei fiori e dei lumini, quello di Matilde era spoglio, a malapena il nome stampato su un cartoncino . Divisi i fiori fra i due e quelli per Matilde li misi per terra, andava bene lo stesso. Feci il segno della croce e mi voltai per andarmene scontrandomi quasi con una signora che riconobbi per sua madre.
Istintivamente l’abbracciai e lei si sciolse in un pianto. La lasciai sfogare.
«Venga signora andiamo via.» La portai in un bar e ordinai un tè per entrambe.
«Non ho mai visto qualcuno fermarsi sulla tomba di Matilde. Lei era la sua vicina, vero? C’era anche quando l’abbiamo seppellita»
Era una constatazione e le porsi un pacchetto di fazzoletti di carta che avevo nella borsa.
«Lo so che quello che ha fatto è imperdonabile, Davide era un bambino stupendo, ma era pur sempre mia figlia, mi è consentito piangerla.»
«Nessuno dovrebbe morire da solo.»
«Sì, è vero. In parte è colpa di mio genero. Io e mio marito l’avevamo avvertito, ma lui dopo la nascita di Davide ha smesso tutte le precauzioni ed ha interrotto le cure.»
«Vuol dire che Matilde era ammalata?»
«Era una bipolare, ma in maniera grave. Finché è stata con noi, era regolarmente seguita da uno psichiatra poi… »
«Devo farle vedere una cosa» Aprii la borsa e presi la busta. Non so perché l’avessi portata con me, forse volevo lasciarla in Questura, ma adesso sapevo che era a sua madre che dovevo darla.
«Ieri, il mio cagnolino è andato a scavare una buca nel giardino di sua figlia e quando sono andata a cercarlo ho trovato questo.» Le porsi il quaderno.
«Matilde mi ha sempre detto che non era contenta di stare qui, di aver lasciato la città e l’ambiente cinematografico dove lavorava. Forse è questo che l’ha condotta…» non terminai la frase.
La signora stava sfogliando le pagine, soffermandosi su alcuni passi.
«No. Matilde viveva in quel mondo tutto suo che si era creata. Faceva la cassiera solo nel pomeriggio in un cinema, è così che ha conosciuto Giacomo. Solo che in quel periodo era seguita dal dottore, prendeva regolarmente i farmaci, la controllavo. Abbiamo detto tutto a Giacomo, ma lui era follemente innamorato e anche se si rendeva conto delle fantasie di Matilde non gli importava. Non era il caso che avesse un bambino. Troppo fragile. Ha smesso di prendere le pillole in gravidanza, poi mio marito è morto e Giacomo ne ha approfittato per limitare le mie visite, l’ho detto anche alla polizia. Così dopo che è morta hanno chiuso subito il caso. Ho perso in un solo colpo mio nipote e mia figlia, adesso non ho più nessuno e Matilde è per tutti un mostro.»
Le presi una mano e gliela strinsi cercando di trasmetterle un po’ di calore.
«Vorrei chiederle un favore. Può occuparsi far mettere il nome e un vaso nella lapide? Le farò la delega e le pagherò il disturbo.»
«Certamente, è giusto che anche Matilde abbia qualcuno che pensi a Lei.»
Mi diede i suoi recapiti e ci alzammo.
«Spero di rivederla» mi disse «Anche se adesso sono più tranquilla, so che Matilde non è sola.»
La osservai andar via con un groppo alla gola: non esiste nulla più forte dell’amore di una madre che assolve e perdona. Una madre dolente. Ricordai la prima strofa dello Stabat Mater di
Jacopone da Todi “Stabat Mater dolorósa iuxta crucem lacrimósa, dum pendebat Filius. “
(Stava la Madre dolente in lacrime presso la Croce da cui pendeva il Figlio).
Provai quasi un rimorso per non essermi accorta di niente in tutti questi anni, ma a volte la verità si svela quando ormai è troppo tardi.